Ero in aeroporto e stavo guardando una rivista di cronaca. Sono rimasto colpito dalla foto di un fioraio del Sud Italia che di lì a poco avrebbe fatto una terribile fine.
La foto lo ritraeva cappio al collo sul balcone, benzina addosso e nell'intento di accendere il fuoco. Mi sono fatto alcune domande sul ruolo di questa fotografia, del dovere di cronaca, ma soprattutto dell'incredibile onnipresenza della fotografia nel quotidiano. Qual' è diventato il fine di fotografare? Mentre una volta era appannaggio di navigati fotogiornalisti, ora proprio tutti possono rimanere impassibili davanti un gesto estremo e scattare una foto? Ed anche, qual'è il senso? Non avendo la pretesa di comprendere la portata globale di un evoluzione in atto di cui sono anche parte, quando per di più la cosa e appena cominciata, questa fotografia e stata lo spunto per una mia personalissima riflessione ed per un punto di vista personale sulla direzione che vorrei imprimere alla mia ricerca fotografica. Sono innamorato della street photography da quando ho iniziato a usare una macchina fotografica, anche se ora me ne sto distaccando, ho scattato in tutte le condizioni cercando di imitare i grandi, con flash esterni, con toy camera, grandangoli, rubando attimi, sguardi, quasi collidendo con le persone, oppure avvicinandole e chiedendo loro di raccontarmi la propria storia. In questo percorso ho anche affinato la tecnica per produrre il bianco e nero che volevo, a schermo ma soprattutto in stampa, ottenendo finalmente il risultato finale senza bisogno di nessun altro apporto dall'esterno. Poi ancora mi sono avvicinato al colore. Sono rimasto volontariamente distante dalla fotografia macro, di sport, di paesaggio, dalla caccia fotografica, dalla fotografia di moda, e da molti altri interessanti generi. Ho capito relativamente presto che più foto comunicano meglio di una ciò che voglio dire, almeno a mio parere, ed ho iniziato ad esplorare il mezzo di espressione del portfolio, esperienza talmente interessante che è diventata un riferimento nel mio modo di fare. Ho sempre pensato alla fotografia come un modo di comunicare artistico, in contrapposizione ad un linguaggio prettamente razionale che ben conosco ed applico quotidianamente nel lavoro. Per ciò sono ripartito da qui: comunicare, perché e cosa. Questo credo sia il punto: "ne vale la pena" e "cosa metti sul piatto in questa foto" sono le due domande che, anche a detta di eminenti critici fotografici, ho elaborato essere le due chiavi di lettura della fotografia che vorrò continuare sempre a fare. Entrambe le domande sono poste e dirette a me stesso, ma potrebbero essere poste da chi guarda una mia fotografia; soprattutto la seconda mi incuriosisce se posta da uno spettatore, immagino una sensazione istintiva che l'attento osservatore prova guardando un opera, quasi come sentisse cosa c'è stato in gioco in quella foto, tra l'autore e del soggetto. Questo è affascinante, e una sorta di empatia che si stabilisce col fruitore della foto, il quale intuisce cosa l'autore ha speso di sè per fare ciò che ha fatto. Sempre la seconda domanda evidenzia la crescita che mi aspetto nel percorso di indagine mediante la fotografia, quale coinvolgimento ci dev'essere, che risulterà di certo più faticoso che rimanere ai margini della storia, ma sarà un modo per ampliare la visione e nel migliore dei casi cambiare un poco se stessi. In molti forum e blog leggo spesso l'augurio fatto al fotografo "buona luce", che evoca ataviche considerazioni sul ruolo principe della luce nella fotografia, cosa correttissima per carità. Ora vorrei aggiungere l'augurio di una "buona esperienza", per segnalare il lato vivo dell'esperienza fotografica, che nella crescita personale lascia molto di più di una bella immagine.
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